
Perchè anche se dovesse succederti la cosa più sgradevole, ad esempio essere ingurgitato da un lupo antropomorfo sotto mentite spoglie familiari, poi arriverebbe qualcuno a tirarti fuori incolume e quel che trarresti dall'aver ceduto al fascino del proibito sarebbero il brivido dell'avventura ed un aneddoto di sicuro effetto da raccontare agli amichetti di scuola.
Figurarsi che nemmeno la nonna-antipasto trapassa, così niente insegnamento sull'enigma della morte; e dire che aveva pur la sua veneranda età, scampata alla bestia dall'intestino pigro ci avrebbero pensato di lì a poco l'osteoporosi o l'alzheimer.
La versione di cui i più sono a conoscenza è quella edulcorata dei Grimm; l'originale (Le Petit Chaperon Rouge di Perrault a sua volta derivata dalla tradizione orale) è priva di lieto fine, il pasto si consuma senza ritorno e l'allusione sessuale risulta più marcata - è triste come, una volta cresciuti, si realizzi l'inversione del dramma nel mondo reale, trattandosi non tanto della ragazzina che finisce suo malgrado dentro il lupo, quanto del lupo che finisce di buon grado dentro la ragazzina. Un genere di lupo non certo in via d'estinzione.
A parte la fugace apparizione di una diafana metropoli all'orizzonte oltre le fronde, indice che proprio con una rielaborazione artistica si ha a che fare, il sipario si apre secondo dettami della tradizione. Abbandonato il sentiero principale in barba all'esortazione in sovraimpressione, ci si aggira un po' a casaccio e pervasi da un senso di smarrimento reso ad arte entro un artistico bosco incantato, alla ricerca di una manciata di item e/o hot-spot la cui vista evoca delle stringate frasi evocative e anche loro molto artistiche, così come tutti i ghirigori che si stampano ogni tanto ai bordi dello schermo. Raggiunta una locazione particolare, sperando che il proprio moto randomico non allunghi l'esplorazione fino ad una artistica eternità, e assistito ad un ermetico ed artistico intermezzo, si torna per magia sulla dritta via verso la casa di nonna, che occorrerà raggiungere sotto la pioggia battente a passo obbligatorio di lumaca zoppa - trattasi di tener premuto avanti per alcuni minuti e poi vedere il personaggio continuare da solo per altrettanti fino all'uscio, in totale almeno cinque minuti di nullafacenza artisticamente pianificata. Una volta dentro, a seconda della propria condotta di non-gioco, si partecipa ad un tour guidato più o meno lungo attraverso varie stanze, assistendo a pattern audiovisivi d'onirica inquietudine, rimarcabili per visionarietà e artisticità.
Le cappuccette ai blocchi di partenza in realtà sono svariate, di diversa età ed indole, quindi la procedura andrà reiterata con la prospettiva ultima di far fare un giro a tutte quante e capire cosa muova la giostra a tema.
Si dice sempre che i videogiochi dovrebbero cercare di far altro che divertire; The Path in effetti si pone il problema, ma è così introverso che finisce per faticare da matti a sollecitare le corde emozionali a cui mira. Partendo dai significati, questi sono così impliciti, diluiti e isolati che al posto di generare la giusta dose di mistero e curiosa imperscrutabilità rischiano una ricezione difettosa, sconnessa. Vietandosi d'andare a sbirciare su internet teorie altrui e analisi del plot più o meno ufficiose, per il giocatore non troppo incline al fai-da-te diventa forzoso raccogliere i vari elementi per trarne delle informazioni sui cui poi ragionare; c'è troppa sproporzione tra il detto ed il non detto a favore dell'ultimo, perchè il castello di carte regga o addirittura arrivi la voglia d'iniziarne la costruzione.
Sul piano formale, quello che potrebbe anche descriversi come smantellamento delle convenzioni del medium, più che ad una interessante destrutturazione conduce maldestro a qualche crollo di calcinacci. Non ci sono nemici né limiti di tempo, non si spara né si attacca, non ci si nasconde dietro ombre o muretti, non c'è un hud né un obiettivo palese; niente bastone, niente carota, non si vince e non si perde. Una liberazione che apre la strada a componenti extraludiche di inedita intensità e profondità? Almeno in questo caso, niente affatto. Ci si scorda in fretta che muoversi alla cieca in mezzo agli alberi è un artificio straniante accettato nel patto con il gioco, quando il risultato è l'insofferenza fisiologica più che il malessere esistenziale; alla riduzione all'osso di interazioni e meccaniche non si è riusciti a far corrispondere quella chiarezza d'esecuzione e d'intenti così necessaria ad una fruizione fruttuosa, appagante.
Forse si è più vicini all'arte (qualsiasi cosa essa sia) quando ci si scopre nutriti interiormente anche da contenuti dei più tragici o dolorosi o disturbanti, assunti traendo il piacere intimo dell'arricchimento che va al di là delle eventuali lacrime di partecipazione donate al kleenex o del turbamento o del raccapriccio; The Path è più che altro una manciata di eleganti perle di suggestione perse in un sacchetto di sferette di piombo.
A parte la fugace apparizione di una diafana metropoli all'orizzonte oltre le fronde, indice che proprio con una rielaborazione artistica si ha a che fare, il sipario si apre secondo dettami della tradizione. Abbandonato il sentiero principale in barba all'esortazione in sovraimpressione, ci si aggira un po' a casaccio e pervasi da un senso di smarrimento reso ad arte entro un artistico bosco incantato, alla ricerca di una manciata di item e/o hot-spot la cui vista evoca delle stringate frasi evocative e anche loro molto artistiche, così come tutti i ghirigori che si stampano ogni tanto ai bordi dello schermo. Raggiunta una locazione particolare, sperando che il proprio moto randomico non allunghi l'esplorazione fino ad una artistica eternità, e assistito ad un ermetico ed artistico intermezzo, si torna per magia sulla dritta via verso la casa di nonna, che occorrerà raggiungere sotto la pioggia battente a passo obbligatorio di lumaca zoppa - trattasi di tener premuto avanti per alcuni minuti e poi vedere il personaggio continuare da solo per altrettanti fino all'uscio, in totale almeno cinque minuti di nullafacenza artisticamente pianificata. Una volta dentro, a seconda della propria condotta di non-gioco, si partecipa ad un tour guidato più o meno lungo attraverso varie stanze, assistendo a pattern audiovisivi d'onirica inquietudine, rimarcabili per visionarietà e artisticità.
Le cappuccette ai blocchi di partenza in realtà sono svariate, di diversa età ed indole, quindi la procedura andrà reiterata con la prospettiva ultima di far fare un giro a tutte quante e capire cosa muova la giostra a tema.
Si dice sempre che i videogiochi dovrebbero cercare di far altro che divertire; The Path in effetti si pone il problema, ma è così introverso che finisce per faticare da matti a sollecitare le corde emozionali a cui mira. Partendo dai significati, questi sono così impliciti, diluiti e isolati che al posto di generare la giusta dose di mistero e curiosa imperscrutabilità rischiano una ricezione difettosa, sconnessa. Vietandosi d'andare a sbirciare su internet teorie altrui e analisi del plot più o meno ufficiose, per il giocatore non troppo incline al fai-da-te diventa forzoso raccogliere i vari elementi per trarne delle informazioni sui cui poi ragionare; c'è troppa sproporzione tra il detto ed il non detto a favore dell'ultimo, perchè il castello di carte regga o addirittura arrivi la voglia d'iniziarne la costruzione.
Sul piano formale, quello che potrebbe anche descriversi come smantellamento delle convenzioni del medium, più che ad una interessante destrutturazione conduce maldestro a qualche crollo di calcinacci. Non ci sono nemici né limiti di tempo, non si spara né si attacca, non ci si nasconde dietro ombre o muretti, non c'è un hud né un obiettivo palese; niente bastone, niente carota, non si vince e non si perde. Una liberazione che apre la strada a componenti extraludiche di inedita intensità e profondità? Almeno in questo caso, niente affatto. Ci si scorda in fretta che muoversi alla cieca in mezzo agli alberi è un artificio straniante accettato nel patto con il gioco, quando il risultato è l'insofferenza fisiologica più che il malessere esistenziale; alla riduzione all'osso di interazioni e meccaniche non si è riusciti a far corrispondere quella chiarezza d'esecuzione e d'intenti così necessaria ad una fruizione fruttuosa, appagante.
Forse si è più vicini all'arte (qualsiasi cosa essa sia) quando ci si scopre nutriti interiormente anche da contenuti dei più tragici o dolorosi o disturbanti, assunti traendo il piacere intimo dell'arricchimento che va al di là delle eventuali lacrime di partecipazione donate al kleenex o del turbamento o del raccapriccio; The Path è più che altro una manciata di eleganti perle di suggestione perse in un sacchetto di sferette di piombo.
Come l'hai descritto mi ha dato l'idea che sia come una di quelle complesse decorazioni utilizzate per guarnire le torte da cerimonia più sofisticate. Se capita nella tua fetta e malauguratamente decidi di addentarla, oltre a comprendere che la tua mascella non è progettata per fungere da schiaccianoci, perdi anche parte del piacere che avresti dovuto provare interagendo con il dolce. Se ti spacca un incisivo, se mette in dubbio le capacità del tuo apparato gustativo, se ti cementa lo stomaco o ti fa evacuare l'intestino, non è più un alimento. Morale della favola: se decidi di cucinare qualcosa, di creare una pietanza gastronomica degna di esser definita tale, questa deve essere assolutamente commestibile, in tutti i sensi.
RispondiEliminaSembra anche un'altra freccia stermina artisti boy scout per l'arco di Koji.
Comunque intendo assaggiarlo: sia mai che rinunci ad un nuovo composto digitale pregno di Bifidus Essensis Acti Regularis, soprattutto quando si è passati un inverno ad accumulare videoludigodimento ed urge purificazione forzata per futuri immagazzinamenti xD
Diciamo che ""l'ho provato"", nel senso che non avendo i requisiti necessari non so, ad esempio, se all'inizio ho incontrato boscaglia innevata o la scheda video non ha caricato gli shader necessari per il terreno originale. Diciamo che a differenza dell'intervento precedente ora l'ho almeno "toccato", anche se la percezione non è cambiata molto perché non riesco ancora a considerarlo senza fare altre strambe similitudini (o non riesco a considerarlo proprio).
RispondiEliminaPensavo al concetto di un tizio che ha un terreno e decide di sfruttarlo per costruirci un percorso da attraversare dietro il pagamento di un biglietto. Se fosse un uomo normale, probabilmente, inserirebbe delle strutture classiche, come ad esempio uno scivolo, un'altalena, delle panchine. Se avesse un po' più d'intraprendenza potrebbe allestire un percorso di guerra, scavando trincee, montando labirinti di filo spinato e fonti sonore roboanti per rievocare un qualsiasi teatro di guerra. Se invece fosse alquanto bizzarro, pianterebbe tanti alberi sbilenchi, costruirebbe l'unico edificio senza punti d'accesso, spargendo per tutta la superficie oggettistica ricavata dalla pulizia del suo scantinato. A quel punto, inserite alcune fonti sonore particolarmente evocative, chiederebbe al cliente di scegliere quale gonna indossare per visitare il suo scenario.
E non sarebbe neanche male come principio. Ognuno con il proprio terreno, ognuno le proprie idee su come allestire uno scenario da visitare. Il problema è: quale sarebbe lo scopo? Mostrare il risultato di un esercizio di stile, delle proprie capacità "artistiche", d'immaginazione? Mostrare cosa si è capaci di fare con un tot di metri quadri, due nozioni di botanica e delle cianfrusaglie, a prescindere? Provocare delle emozioni nel visitatore, a prescindere? Divertirlo (sì, anche questo a prescidere)? Costruire qualcosa di diverso da un parco munito di panchine e altalena spacciandolo per parco giochi avveniristico? O si tratta semplicemente di metter su dei luoghi digitali da esplorare, in 3d anziché "piatti" come può esserlo un paesaggio rappresentato su tela (e si torna a monte, alla domanda sull'esercizio di stile)?
Sarebbe stato interessante saperlo prima di partire, più che altro perché l'approccio può cambiare completamente la percezione. Se arrivo al cancello di "questa attrazione(?) e il tizio mi dice di ficcarmi la mantella e gli slip di Cappuccetto Rosso piazzandomi poi una palla di ferro da carcerato per non correre, come minimo un "perché" dubbioso almeno in difesa della propria virtù, verrebbe fuori spontaneo.
Ma si può ricondurre la questione anche ad un qualcosa di meno surreale come un libro, che non può esimersi dall'esplicitare a quale sfera della dialettica intende riferirsi (sei un manuale, un romanzo, un capriccio del proprietario della macchina da scrivere che ti ha generato o ché?)
Detto brutalmente, ma in senso buono (sincero) e dopo la "prova" di cui sopra: sto The Path che mischia le sferette di piombo di xPeter e le suggestioni del suo autore, a conti fatti dopo la fine della fiera quando si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati, 'che cazz'è? ^^"
E' un dubbio che mi son posto anch'io. Nella sua semplicità (in soldoni trattasi di tot metri quadrati di boschetto con chincaglierie sporadiche accompagnate da dedica), The Path riesce comunque a non farsi capire; e questa poca comunicatività non sono proprio riuscito a trovarla fascinosa o intrigante. La principale perplessità è in che cosa il titolo sfrutterebbe la potenzialità del mezzo; non è riuscito a convincermi d'essere più efficace o più significativo, chessò, della visione di un serie di illustrazioni con didascalia.
RispondiEliminaAvrei voluto provarlo ma l'obsolescenza del mio pc non me lo consente XD
RispondiEliminalo stile grafico mi piace ma farmi un'idea più chiara è impossibile senza provarlo con mano. Mi ricordo che ne venni a conoscenza tempo addietro perchè ci dedico un'articolo una rivista -Videogiochi, forse?-