
Anche quella sera ero passato dal saloon di Pietro Bara. Mi ero seduto al banco e avevo chiesto un brandy. Lo bevvi a rapide sorsate. Allontanando il naso dal bicchiere per la terza volta, le mie nari furono soprese da un odore acre, che avrei riconosciuto fra mille altri. Chocobo. La mia mente scorse in rassegna i volti delle persone disposte a farsi tutte quelle miglia a dorso di pennuto; ancora prima che i cardini della porta cigolassero, sapevo di avere visite.
Non mi voltai. Il passo era lieve e cadenzato. Era una donna. “un bicchiere di porto per la signorina, sul mio conto, oste” dissi, e sempre con gli occhi sul bicchiere salutai “qual buon vento, agente Merlose”. La sentii irrigidirsi dietro di me, ma fu un attimo. Si sedette al banco alla mia sinistra. “Non abbandoni mai le formalità, eh?”
-“Sono sicuro che le ragioni della visita siano ufficiali.”
-“Ti sbagli. Sono qui per conto di un amico comune”. Se voleva soprendermi c’era riuscita. Mi voltai verso di lei.
-“il vecchio Durai non ne ha per molto.” Disse con la sua consueta freddezza.
Durai.
-“posso chiederti in prestito la cavalcatura?”
-“è esausta. Faresti meglio a partire domattina”
-“la scambierò alla stalla più vicina, lascerò detto che passi a riprenderla”
Abbassò gli occhi. “il vecchio ha fatto il tuo nome. Il dottore non crede che tu faccia in tempo”
-“Ragione in più per non perdersi in chiacchere. Pietro, riempile il calice. Ci vediamo, Merlose”
Il pennuto era molto più docile della padrona. L’andatura ondivaga della bestia cullava i miei pensieri. Non potei non ritornare con la mente ai giorni dell’università. L’esimio dottor Durai era all’epoca solo un promettente studioso. Il carattere impulsivo e iracondo contrastava con gli studi storici che aveva intrapreso. La nostra amicizia era una di quelle bizzarrie del caso; avevo preso le sue difese all’uscita di una taverna, disperdendo un manipolo di scagnozzi del clero locale che lo stava malmenando. Adesso che conosco il suo carattere posso bene immaginare che fosse stato lui ad attaccar briga, incurante della sua gracile corporatura e del soprannumero di quei bravi. Ad ogni modo lo rialzai dal selciato e gli offrii di dividere un otre di vino. Ancora dopo un’ora non si era calmato, imprecava contro gli assalitori, gridava che non gli avrebbero tappato la bocca. In seguito lo riaccompagnai a casa e venne fuori che era uno storico. Era venuto in possesso di certi cartigli di un suo antenato, un certo Orlan, arso vivo dal braccio secolare per eresia; manoscritti che a suo dire avrebbero smascherato una colossale menzogna, una stortura che per secoli era stata imbastita dal papato in congiunta con la corona, per occultare i rispettivi crimini. Ebbi dunque il privilegio di conoscere Durai proprio nei giorni in cui andava elaborando il suo monumentale studio, che tanto scalpore suscitò al momento della pubblicazione, e per il quale divenne una figura conosciuta in tutti gli ambienti accademici.
Ma la sua carriera non ne trasse alcun giovamento. La riforma morale che egli aveva vagheggiato, indagando sulla figura del santo Ajora e al tempo stesso denunciando la corruzione della chiesa, non avvenne. Coloro i cui crimini aveva denunciato erano potenti, e riuscirono ad emarginarlo. Durai sembrò non curarsene e si immerse completamente nei suoi studi. Noi ormai ci eravamo persi di vista. La steppa interruppe bruscamente la foresta e con essa il flusso dei miei ricordi. Una fioca luce filtrava dalla finestre della locanda dove avrei trascorso la notte. L’indomani mi attendeva un’altra mezza giornata di viaggio.
Infine giunsi sotto la vecchia casa, che sembrava non essere cambiata affatto. Spinsi il pesante battente. Una pioggia violenta mi frustava la schiena da stamattina, e francamente ero più ansioso di asciugarmi che non di incontrare il mio vecchio amico. La domestica che venne ad aprire era un volto a me sconosciuto. La vecchia rimbambita dovette prendermi per il garzone dell’erborista che era stato lì in mattinata. Per il padrone non c’era più nulla da fare, le aveva detto. La lasciai lì senza far cerimonie, e salii le scale che portavano alla camera da letto. Era vuota, il letto disfatto e un terribile olezzo di orina. Delle urla rimbombarono nell’anticamera – provenivano dallo studiolo.
Lo spettacolo che mi si presentò di fronte mi atterrì. Durai era lo spettro di sé stesso, smunto e scarno indossava solo un lacero lenzuolo che un tempo era stato bianco. Il vecchio sembrava indemoniato, correva da uno scaffale all’altro della sua libreria e ne rovesciava per terra i libri. Si accaniva su alcuni tomi come un ossesso, ne strappava le pagine e le lanciava per aria. Aveva la bava alla bocca. Non avevo osato addentrarmi d’un passo in quello che era stato il suo santuario – quella macabra danza mi aveva inchiodato alla porta. Infine sembrò accorgersi di me. Mi si scaraventò contro con gli occhi sbarrati. Batté i suoi magri pugni sul mio torace; era madido di sudori freddi. Urlo col poco fiato che aveva in corpo “Lo stanno rifacendo! Succede ancora!”. Non mi aveva riconosciuto: stava delirando.
Le urla fecero accorrere la domestica – insieme riuscimmo a immobilizzare Durai, il quale, come avesse esaurito d’un tratto tutte le sue forze, perse i sensi mentre lo sorreggevamo. Lo mettemmo a letto. Mentre la donna metteva sul fuoco un placebo, io lo vegliai. Era in preda a una terribile febbre, mormorava frasi apparentemente sconesse. Ripeté un paio di volte la parola “yiazmat”. Dopo neanche due ore finalmente spirò. Mi fu gentilmente offerto di coricarmi nella stanza degli ospiti per la notte. Dormii un sonno profondo.
La finestra dava a oriente e la debole luce mattutina solleticò le mie palpebre. Tornai in me, ricordai dove mi trovavo. Mi alzai. Immobile nel suo letto, Durai aveva dipinta sul volto una serenità quale mai gli avevo visto in vita. La donna doveva essere uscita, senza dubbio per chiamare il becchino. Mi diressi verso lo studio. Yiazmat. Le ultime grida dell’amico mi tormentavano. Detti una scorsa ai volumi, quei pochi rimasti sugli scaffali, e quelli squinternati che giacevano al suolo. Non avevo alcuna pretesa di sciogliere l’arcano – se Durai aveva lasciato una “rosebud” ai posteri, io non ero nella posizione di decifrarla; forse nessuno lo era. La massiccia scrivania di quercia si intravedeva da sotto la massa informe di carte accataste. Sull’angolo alla mia destra, il moccolo di una candela era colato sino al pavimento, solidificandosi in stalattiti giallognole. Il calamaio rovesciato, una chiazza d’inchiostro aveva reso illeggibili gran parte dei fogli. Mi portai dietro di essa: il cassetto era aperto. Dentro vi trovai un UMD di Final Fantasy Tactics e un appunto a matita. La scrittura di Durai si era fatta nervosa con gli anni, ma non indecifrabile:
“Sta succedendo di nuovo. Riabilitare il nome dei Beoulve non è servito, tutto è come allora. Matsuno Yasumi… passare il confine prima che le lame cremisi lo prendano…”
Era tutto. Della faccenda dei Beoulve ovviamente sapevo: di come il misconosciuto Ramza fosse stato abbandonato all’oblio della storia finché Durai non dimostrò carte alla mano quale importanza egli avesse avuto negli avvenimenti di secoli addietro; come le gerarchie ecclesiastiche avessero brigato e manipolato per sottacere la vicenda. Viceversa, il nome Matsuno Yasumi non mi diceva niente. Aprii la confezione del gioco e per scrupolo lessi in fondo al manuale, ma non vi trovai il suo nome… Chissà a cosa si riferiva il vecchio – chissà quando era iniziato il suo delirio. Una lama di luce filtrò dalla finestra e pugnalò la quercia della scrivania, il tappeto consunto e lambì la libreria. La nebbia si era diradata, era tempo di rimettersi in viaggio.
Mi richiusi il pesante portone alle spalle. La città era ancora immota. Giunto a metà strada del vialetto che portava al cancello, mi voltai verso la finestra dello studio. Cosa avevi voluto dire Durai? Chi era questo Matsuno? Un altro tizio troppo scomodo per i libri di storia? Se la milizia del cardinale era davvero sulle sue tracce, neanche tramutarsi in drago l’avrebbe salvato… Dalle mie labbra soffiò un “buona fortuna, ovunque tu sia”. Il sole era alto quando raggiunsi le stalle. Sellai il chocobo. Ci aspettava un lungo viaggio.
Non mi voltai. Il passo era lieve e cadenzato. Era una donna. “un bicchiere di porto per la signorina, sul mio conto, oste” dissi, e sempre con gli occhi sul bicchiere salutai “qual buon vento, agente Merlose”. La sentii irrigidirsi dietro di me, ma fu un attimo. Si sedette al banco alla mia sinistra. “Non abbandoni mai le formalità, eh?”
-“Sono sicuro che le ragioni della visita siano ufficiali.”
-“Ti sbagli. Sono qui per conto di un amico comune”. Se voleva soprendermi c’era riuscita. Mi voltai verso di lei.
-“il vecchio Durai non ne ha per molto.” Disse con la sua consueta freddezza.
Durai.
-“posso chiederti in prestito la cavalcatura?”
-“è esausta. Faresti meglio a partire domattina”
-“la scambierò alla stalla più vicina, lascerò detto che passi a riprenderla”
Abbassò gli occhi. “il vecchio ha fatto il tuo nome. Il dottore non crede che tu faccia in tempo”
-“Ragione in più per non perdersi in chiacchere. Pietro, riempile il calice. Ci vediamo, Merlose”
Il pennuto era molto più docile della padrona. L’andatura ondivaga della bestia cullava i miei pensieri. Non potei non ritornare con la mente ai giorni dell’università. L’esimio dottor Durai era all’epoca solo un promettente studioso. Il carattere impulsivo e iracondo contrastava con gli studi storici che aveva intrapreso. La nostra amicizia era una di quelle bizzarrie del caso; avevo preso le sue difese all’uscita di una taverna, disperdendo un manipolo di scagnozzi del clero locale che lo stava malmenando. Adesso che conosco il suo carattere posso bene immaginare che fosse stato lui ad attaccar briga, incurante della sua gracile corporatura e del soprannumero di quei bravi. Ad ogni modo lo rialzai dal selciato e gli offrii di dividere un otre di vino. Ancora dopo un’ora non si era calmato, imprecava contro gli assalitori, gridava che non gli avrebbero tappato la bocca. In seguito lo riaccompagnai a casa e venne fuori che era uno storico. Era venuto in possesso di certi cartigli di un suo antenato, un certo Orlan, arso vivo dal braccio secolare per eresia; manoscritti che a suo dire avrebbero smascherato una colossale menzogna, una stortura che per secoli era stata imbastita dal papato in congiunta con la corona, per occultare i rispettivi crimini. Ebbi dunque il privilegio di conoscere Durai proprio nei giorni in cui andava elaborando il suo monumentale studio, che tanto scalpore suscitò al momento della pubblicazione, e per il quale divenne una figura conosciuta in tutti gli ambienti accademici.
Ma la sua carriera non ne trasse alcun giovamento. La riforma morale che egli aveva vagheggiato, indagando sulla figura del santo Ajora e al tempo stesso denunciando la corruzione della chiesa, non avvenne. Coloro i cui crimini aveva denunciato erano potenti, e riuscirono ad emarginarlo. Durai sembrò non curarsene e si immerse completamente nei suoi studi. Noi ormai ci eravamo persi di vista. La steppa interruppe bruscamente la foresta e con essa il flusso dei miei ricordi. Una fioca luce filtrava dalla finestre della locanda dove avrei trascorso la notte. L’indomani mi attendeva un’altra mezza giornata di viaggio.
Infine giunsi sotto la vecchia casa, che sembrava non essere cambiata affatto. Spinsi il pesante battente. Una pioggia violenta mi frustava la schiena da stamattina, e francamente ero più ansioso di asciugarmi che non di incontrare il mio vecchio amico. La domestica che venne ad aprire era un volto a me sconosciuto. La vecchia rimbambita dovette prendermi per il garzone dell’erborista che era stato lì in mattinata. Per il padrone non c’era più nulla da fare, le aveva detto. La lasciai lì senza far cerimonie, e salii le scale che portavano alla camera da letto. Era vuota, il letto disfatto e un terribile olezzo di orina. Delle urla rimbombarono nell’anticamera – provenivano dallo studiolo.
Lo spettacolo che mi si presentò di fronte mi atterrì. Durai era lo spettro di sé stesso, smunto e scarno indossava solo un lacero lenzuolo che un tempo era stato bianco. Il vecchio sembrava indemoniato, correva da uno scaffale all’altro della sua libreria e ne rovesciava per terra i libri. Si accaniva su alcuni tomi come un ossesso, ne strappava le pagine e le lanciava per aria. Aveva la bava alla bocca. Non avevo osato addentrarmi d’un passo in quello che era stato il suo santuario – quella macabra danza mi aveva inchiodato alla porta. Infine sembrò accorgersi di me. Mi si scaraventò contro con gli occhi sbarrati. Batté i suoi magri pugni sul mio torace; era madido di sudori freddi. Urlo col poco fiato che aveva in corpo “Lo stanno rifacendo! Succede ancora!”. Non mi aveva riconosciuto: stava delirando.
Le urla fecero accorrere la domestica – insieme riuscimmo a immobilizzare Durai, il quale, come avesse esaurito d’un tratto tutte le sue forze, perse i sensi mentre lo sorreggevamo. Lo mettemmo a letto. Mentre la donna metteva sul fuoco un placebo, io lo vegliai. Era in preda a una terribile febbre, mormorava frasi apparentemente sconesse. Ripeté un paio di volte la parola “yiazmat”. Dopo neanche due ore finalmente spirò. Mi fu gentilmente offerto di coricarmi nella stanza degli ospiti per la notte. Dormii un sonno profondo.
La finestra dava a oriente e la debole luce mattutina solleticò le mie palpebre. Tornai in me, ricordai dove mi trovavo. Mi alzai. Immobile nel suo letto, Durai aveva dipinta sul volto una serenità quale mai gli avevo visto in vita. La donna doveva essere uscita, senza dubbio per chiamare il becchino. Mi diressi verso lo studio. Yiazmat. Le ultime grida dell’amico mi tormentavano. Detti una scorsa ai volumi, quei pochi rimasti sugli scaffali, e quelli squinternati che giacevano al suolo. Non avevo alcuna pretesa di sciogliere l’arcano – se Durai aveva lasciato una “rosebud” ai posteri, io non ero nella posizione di decifrarla; forse nessuno lo era. La massiccia scrivania di quercia si intravedeva da sotto la massa informe di carte accataste. Sull’angolo alla mia destra, il moccolo di una candela era colato sino al pavimento, solidificandosi in stalattiti giallognole. Il calamaio rovesciato, una chiazza d’inchiostro aveva reso illeggibili gran parte dei fogli. Mi portai dietro di essa: il cassetto era aperto. Dentro vi trovai un UMD di Final Fantasy Tactics e un appunto a matita. La scrittura di Durai si era fatta nervosa con gli anni, ma non indecifrabile:
“Sta succedendo di nuovo. Riabilitare il nome dei Beoulve non è servito, tutto è come allora. Matsuno Yasumi… passare il confine prima che le lame cremisi lo prendano…”
Era tutto. Della faccenda dei Beoulve ovviamente sapevo: di come il misconosciuto Ramza fosse stato abbandonato all’oblio della storia finché Durai non dimostrò carte alla mano quale importanza egli avesse avuto negli avvenimenti di secoli addietro; come le gerarchie ecclesiastiche avessero brigato e manipolato per sottacere la vicenda. Viceversa, il nome Matsuno Yasumi non mi diceva niente. Aprii la confezione del gioco e per scrupolo lessi in fondo al manuale, ma non vi trovai il suo nome… Chissà a cosa si riferiva il vecchio – chissà quando era iniziato il suo delirio. Una lama di luce filtrò dalla finestra e pugnalò la quercia della scrivania, il tappeto consunto e lambì la libreria. La nebbia si era diradata, era tempo di rimettersi in viaggio.
Mi richiusi il pesante portone alle spalle. La città era ancora immota. Giunto a metà strada del vialetto che portava al cancello, mi voltai verso la finestra dello studio. Cosa avevi voluto dire Durai? Chi era questo Matsuno? Un altro tizio troppo scomodo per i libri di storia? Se la milizia del cardinale era davvero sulle sue tracce, neanche tramutarsi in drago l’avrebbe salvato… Dalle mie labbra soffiò un “buona fortuna, ovunque tu sia”. Il sole era alto quando raggiunsi le stalle. Sellai il chocobo. Ci aspettava un lungo viaggio.
Questo racconto è dedicato a Hideki Kamiya,
L'ultimo dimenticato in ordine di tempo
Con immutata stima
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Con immutata stima
Covavo questo raccontino da tempo, ma l'avrei probabilmente rileccato e rimandato all'infinito...
RispondiEliminaL'urgenza di vedere Peter Coffin's sull'orlo della chiusura mi ha spinto a pubblicarlo, queste storielle da taverna non avrebbero senso in un diverso contenitore. :)
Purtroppo a questo giro non colgo le citazioni, ma sarei comunque ben lieto di leggere altri racconti del genere, tuoi o di altri avventori che so dilettarsi con la scrittura ;)
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