lunedì 16 giugno 2008

[REWIND] MGS3: osservazioni ricavate durante il viaggio [maxlee]

Nonostante Metal Gear Solid: Snake Eater non sia un esempio da seguire alla lettera in modo da ottenere un sicuro quantitativo di videoludo-godimento (non tutti i videogiochi devono essere MGS style per poter funzionare), si tratta di un prodotto fantastico costruito attraverso un uso accorto quanto geniale dei cosiddetti strumenti ludici contaminati, ossia quelli che pescando da altre forme di comunicazione riescono ad integrare la parte attiva con quella passiva, il dire con l’ascoltare, il fare con il guardare, l’esserci con il "provare". Nel complesso è un esempio che dimostra la riuscita di molte delle qualità che si presume debba avere un videogioco, come la possibilità di generare empatia o il pregio di raccontare un’esperienza il cui valore è strettamente legato al proprio comportamento, nel bene e nel male di ciò che può offrire questa opportunità.

Guardare ed Agire: una miscela coinvolgente
In quanto prequel racconta la storia di un protagonista acerbo con le qualità per affrontare le situazioni difficili, con l’addestramento adeguato (noi con lui avendo a che fare con il terzo capitolo della serie recente), ma con l’animo ancora da forgiare. Di fronte al voltafaccia della nostra guida spirituale e materiale, messi dinanzi alla sua forza e a quella di una squadra di veterani fatta e finita, ci si rende conto di dover indossare un avatar che ci fa sentire piccoli e vulnerabili, anche solo per alcuni attimi. Tutta la miscela che permette l’immedesimazione nella giovine matricola è presentata simbolicamente e in maniera indiretta, sia attraverso i racconti orali fatti dai personaggi tramite il contatto radio, sia da quelli visivi degli scontri allestiti in maniera teatrale durante le lunghe scene passive. Ed è da quì che parte la sensazione di vulnerabilità, dal momento in cui dopo essere rimasti fermi per cinque minuti a godere di tutte quelle situazioni passive al di fuori del nostro controllo, si capisce che sta per arrivare il proprio turno e ci si scopre a sperare che questi ritardi ancora. All’idea che di prendere in mano la situazione si può provare una sorta di sconforto, soprattutto perché consapevoli che sta per avvenire un decisivo cambio di responsabilità che ci porrà nella condizione di dover essere noi gli artefici dello scioglimento della matassa. Il timore di non farcela, di non essere in grado di venir fuori da quella circostanza, pensare di non avere la “forza” per assolvere tutti i compiti che ci sono stati assegnati e - più razionalmente - di rovinare il continuum narrativo a cui siamo chiamati a partecipare attivamente. Le due forme funzionano e lo dimostra l’impatto che si prova nel passaggio fra l’attivo e il passivo, con quell’allarme generale immaginario che ci tira giù dalla branda dove oziavamo serenamente, che ci porta improvvisamente al di là nelle linee nemiche per svolgere il dovere richiesto ad un “eroe”, anche se ancora in erba.

Il cammino di un eroe
La fine del percorso si trova a circa 22 ore di distanza (media variabile, da 12 a 28 circa), ore a tratti piacevolissime quanto può essere il lasciarsi cullare dagli eventi, a tratti frustranti e bisognose di attenzioni come per la richiesta di un intervento quasi al di sopra delle proprie possibilità. Ore suddivise in attimi, quello che ti stupisce, quello che t’indigna, che ti fa soffrire o gioire, quello che ti mette di fronte alla rabbia quanto alla compassione, che ti fa pensare, che ti fa scegliere. Sono queste diverse situazioni ad offrire un’esperienza del tutto personale e da cui si possono ricavare anche piccoli insegnamenti, molto diversi da quelli ipotizzati quando si pensa ad una possibile forma d’educazione videoludica.

Il protagonista ha una spropositata resistenza alle armi da fuoco avversarie. Ciò gli permetterebbe di muoversi senza alcun accorgimento, di affrontare faccia a faccia il nemico così da avere la meglio armi in pugno ed in maniera violenta. A non compiere questa scelta non si è incoraggiati con delle esigenze pratiche (nessun premio evidente per i più valorosi), ma si viene spinti ad operare in tal senso puntando dritti alla coscienza dell’utente. Gli si da la possibilità di scegliere e soprattutto di trovare la consapevolezza di come solo attraverso delle azioni civili - meno ani-mali e più umane - si può percorrere il cammino dell’eroe, quello che ti porta a stare a testa alta sapendo di aver compiuto il proprio dovere nel migliore dei modi possibili. Il premio non si trova dentro lo schermo, ma dentro chi ci sta davanti, offerto attraverso quel meccanismo che permette di inorgoglirsi per aver fatto un qualcosa di giusto. Evitare lo scontro diretto perché sicuramente porterebbe ad esiti nefasti per la vita del malcapitato, quindi aggirarlo, narcotizzarlo, ingannarlo. Nessun sentimento d’odio che ci spinga a distruggere, nessuna azione che provochi una reazione violenta prestabilita. Un po’ come il dover avere a che fare con degli animali che per natura sono costretti a reagire in un determinato modo, senza coscienza e senza consapevolezza. Ma a noi ci viene chiesto di averla, perché siamo uomini e come tali dobbiamo sforzarci di dimostrarlo.
La forza utilizzata a sproposito è sintomo d’ignoranza quanto di timore, soprattutto quest'ultimo attraverso una forma di paura bieca, quella che rende un essere umano un vigliacco. La paura non è razionale, la paura è un istinto e un videogioco come MGS3 ci chiede di più, ci chiede di essere "uomini veri", di capire qual è il comportamento adeguato per un essere che si ritiene a ragione il più forte di tutti. Questo significa che ci chiede di portare rispetto, sempre, a prescindere dal fatto che "in gioco" ci sia una vita umana digitale o animale dove l’accumulo sconsiderato di risorse è inutile e solo un modo paranoico per difendersi dalla paura in questo caso di restare a secco (le carcasse degli animali uccisi vanno a male, smettendo la propria funzione nutrizionale in favore di quella tossica).
MGS3 spiega e permette di provare cosa significa azione e reazione in determinati contesti. Nessun risultato evidente, nessuna fanfara se non uccidi così come niente sirene della polizia se lo fai; insomma niente fattori esterni, ma solo tu e la tua coscienza.

Nel mettere in pratica quanto detto sopra, capita di scoprire come sia più faticoso farlo in quel "giusto" modo, ma anche quanto sia più gratificante. MGS3 ci spiega in maniera chiara che il più forte, che sia un individuo o una nazione, deve avere più responsabilità e compassione difendendo sia se stessi dagli altri che gli altri da se stessi. Che deve avere più coraggio, che deve rinunciare alla paura e non cedervi trovando come unica soluzione l’annientamento di tutto e per tutto. Il cattivone di turno che vuole conquistare il mondo distruggendolo con il famoso "grilletto" rosso, è proprio lo stereotipo di ciò che MGS3 ci chiede di non essere, che c’invita a non diventare.

Nel complesso
Un’esperienza con tante variabili che se si possono in qualche modo condividere e confrontare perché vissute su basi identiche per tutti, è altrettanto vero che ogni giro di giostra offre la possibilità di raccontare una storia unica. Ogni prova intesa come quella di ogni individuo, perché come direbbe un regista che ama la presa diretta e preferisce qualche strafalcione alla sterile perfezione, “buona la prima”. Infatti riguardo la rigiocabilità, se si può dire che è presente e di buona qualità, bisogna anche precisare che si tratta di una forma decisamente diversa da quella che si può ottenere da una prima traversata. Un ulteriore tentativo avrebbe più che altro il sapore dell’esplorazione a fini documentaristici (quasi più ludici della versione originale), quelli che possono essere associati al voler conoscere tutti i bivi di un libro-game, al vedersi il filmato di un backstage in un qualsiasi DVD “per conoscere il tutto", (det)tagli compresi; il dietro le quinte, insomma l'atto rappresentato dal tentativo di svelare un trucco magico e tutte le variabili che sono state immaginate per metterlo in atto.

In conclusione si può ricordare che videogiocare costa fatica e dedizione e che spesso il prezzo è troppo alto; ma non in questo caso. Tutto ciò che gli si da, Snake Eater te lo restituisce, nel bene e nel male. È solo un videogioco, solo questo, eppure così pregno di saggezza e di spunti che ti fa capire quanto ci si deve ritenere fortunati ad aver incontrato nel proprio cammino una passione come quella videoludica.

5 commenti:

  1. Mi dispiace per le lungaggini che fanno arrivare un post a metà pagina -.-“ ...servirebbe lo script che permette di spezzarlo lasciando ad un tasto “continua” la possibilità di vederlo tutto. Appena ripristino il blog magari sti cosi da 8000 caratteri li lascio lì e passo solo il link.

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  2. Il segreto di Kojima è quello di far passare come "libertà di condotta di gioco" quello che in fin dei conti non è che "gameplay calibrato coi piedi" XD

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  3. Intanto ho iniziato MGS4. Chi aveva parlato di esperienza di retrogaming c'ha preso in pieno. Il primo atto è talmente prolisso e così affine alla legnosità di gameplay dei precedecessori che quasi stavo per lanciare il gioco dalla finestra, in preda ad una certa irritazione.
    Poi si comincia a fare l'abitudine e ad entrare nell'ottica, si mettono da parte le pretese, si realizza da che mondo è mondo questo è Metal Gear Solid (il tutto agevolato dalla volontà di dare un senso alle 70 euro sborsate) e finalmente ci si mette comodi a lasciare che la nota formula ibrida si dipani godibilmente.

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  4. Il segreto di Kojima è quello di far passare come "libertà di condotta di gioco" quello che in fin dei conti non è che "gameplay calibrato coi piedi" XD

    L'imperfezione viene considerata una delle variabili che rendono interessante il vivere ed esiste perché niente (o quasi) è stato prestabilito a priori. Ora dire che abbia inserito una calibrazione "libera" per rendere più "reale" e interessante il gioco forse sarebbe troppo... o forse no? ^^" ...resto sul vago continuando a confidare nell'incertezza che non sappiamo se ci è o ci fa ^^

    Per MGS4, l'odio al primo impatto a volte è un indice positivo; ho tanti esempi di prodotti che avrei distrutto e poi causa spesa effettuata come hai detto ho imparato ad apprezzare... speriamo bene.

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  5. Di Snake Eater mi sono rimaste impresse molte caratteristiche. La stupefacente caratterizzazione di John, un eroe umano dotato di una "fisicità" incredibile. Kojima è davvero un maestro in questo: inserire "elementi di gameplay" la cui funzione principale è restituire una sensazione. Tale è ovviamente il sistema di cura in Snake Eater, dove il giocatore è chiamato a steccare le ossa rotte, disinfettare le ferite, estrarre proiettili, staccarsi le sanguisughe. Una macchinosità notevole, il cui vero scopo non è essere funzionale (per quello sarebbe bastato toccare un power-up di ripristino dell'energia, come nei videogiochi d'una volta), ma prendere questo invincibile "futuro Big Boss" e farlo sanguinare davanti agli occhi del giocatore, conferire al personaggio la fragilità umana che rende interessanti le gesta di semidei e eroi sin dai tempi dei poemi omerici, nonostante si sappia in partenza che trionferanno sulle avversità.

    Per inciso, non molto dopo il "terzo sole" di Metal Gear 4, devo dire che il gioco spiazza anche un Genome soldier come me. Alla luce di quanto vissuto in questi giorni, metà delle cose che ho scritto in taverna dovrei riscriverle, e penso propri che lo farò, non appena giunto alla conclusione.

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